Tequila e mezcal oggi

di Fulvio Piccinino


Poco più di un anno e mezzo fa, avevamo scritto dei distillati a base d’agave, concentrandoci soprattutto su tequila e mezcal, focalizzandoci sugli aspetti tecnici legati a materie prime e metodo produttivo dando un quadro completo ed esaustivo delle loro differenze.

La conclusione a cui si era giunti era che il mezcal non era solo il cugino poco educato e fumoso del tequila, ma un prodotto in grado di esaltare i suoi difetti, come la presenza di una nota acetica importante, fino a farne dei pregi.

Ora il successo di tequila e mezcal sta portando alla ribalta altre tipologie di distillato di agave come la raicilla, prodotta con agavi non appartenenti al biotipo Azul nella Contea di Jalisco, della Bacanora il cui nome deriva dall’omonimo comune della Contea di Sonora ed il Sotol originario di Chihuahua prodotto con Agave Dasylirion.

La crescita del comparto mette i produttori di queste tipologie di fronte a grandi sfide con due parole d’ordine ormai entrate nel nostro lessico: sostenibilità e biodiversità.

Su quest’ultimo punto il tequila sembra un po’ deficitario avendo fatto della Azul Weber  l’unica materia prima possibile, mentre il mezcal avendo spesso puntato su raccolte in natura di piante selvatiche potrebbe trovarsi in difficoltà sul primo.

L’accresciuta richiesta mette a dura prova i due prodotti nell’ottemperare alle richieste dell’agenda 2030.
Il tequila ormai conta centinaia di migliaia di ettari mono colturali mentre il mezcal, considerati i tempi di crescita delle varie agavi impiegate rischia di trovarsi nel prossimo decennio a corto di materia prima per i suoi prodotti premium.
A questo si aggiunge il discorso emissioni e smaltimento dell’enorme massa di fibre che vengono prodotte a cui però si pone rimedio, come nel caso della grappa con le vinacce, bruciandole nelle caldaie e piantando nuovi boschi.

Il consumo locale di qualche decennio fa, l’artigianalità della produzione, ricordando le foto dei famosi clay still, gli alambicchi di terracotta dei produttori più tradizionali e le pozze di fermentazione scavate a terra difficilmente potevano mettere a rischio l’ecosistema.

Oggi con l’ingresso di player di grosse dimensioni e la richiesta di prodotti premium che si discostano dalla tradizione più pura mette a rischio determinati meccanismi.
Primo fra tutti la sopravvivenza dei piccoli produttori che non possono competere con le grandi aziende il cui raggruppamento rappresenta, ad oggi, il 75% della produzione totale. Il rischio pertanto è una, diremmo inevitabile, tendenza alla concentrazione o alla nascita di centri produttivi dove i vari produttori si possano consociare, mantenendo ognuno le sue ricette.
Una sostanziale mancanza di romanticismo, in quanto un grosso terzista non  ha il fascino di una piccola distilleria, ma che ne permetterebbe la sopravvivenza.
D’altra parte la crescita a doppia cifra negli Stati Uniti, il principale mercato di riferimento, del mezcal ed il crescente interesse per i prodotti di nicchia da agave sta minando da vicino il podio del rum.
L’ingresso di dei grossi player significa una cospicua iniezione di capitali e di promozione utile a tutto il comparto, basti pensare che il marchio Casamigos, venduto da Clooney a Diageo ha praticamente raddoppiato i volumi in un anno, coinvolgendo nella crescita una globale riconoscibilità del prodotto tequila.

Con i grandi marchi pronti ad investire è normale che questi cerchino di pescare all’interno di un comparto in crescita, dove il ruolo dei bartender sembra avere sempre di più un ruolo chiave.
Il mezcal è infatti un fenomeno, così come potrebbero esserlo Bacanora e Sotol, legato molto ai bartender che si innamorano di un prodotto così tipico in grado di suscitare forti emozioni, spesso legate alle suggestioni che il suo paese di origine, il Messico.

Una maggiore produzione significherebbe probabilmente l’abbandono del metodo ancestral da parte di molti a favore delle innovazioni che hanno reso il tequila un prodotto mondiale con milioni di casse vendute. Una sostanziale mancanza di cultura su questo prodotto da parte del consumatore meno attento che si ferma al solo nome per sentirsi alla moda, potrebbe aprire la strada a prodotti meno tradizionali.
I diffusori che estraggono lo zucchero dell’agave senza processo termico e l’uso delle colonne per i prodotti commerciali hanno consentito di sfruttare al meglio la materia prima che notoriamente ha problemi di approvvigionamento, non ultimo  del cambio climatico che ha portato la neve nelle alture.

Nascerebbe anche un problema di controllo dove la politica si mescola al commerciale.
Il Consejo Regulador del Mezcal, di fatto, non esiste più e dalle sue ceneri sono nati ben 5 enti certificatori, così come accaduto per il biologico.
Il regime di monopolio e gli eccessivi costi che aveva generato avevano suscitato non poca insoddisfazione dei produttori che ora possono scegliere fra due enti con sede ad Oaxaca, due a Michoacan e uno a Cottà del Messico. Maggior concorrenza e prezzi minori che dovrebbero accelerare le certificazioni e che dovrebbero permettere a tutte le distillerie, anche le più piccole, di accreditarsi.

Ma a questo punto si apre un’altra questione. Non dimentichiamoci che dalle interviste fatte mezcal ed i suoi fratelli sarebbero scelti proprio per il loro carattere, la loro profondità di gusto e le evidenti differenze di gusto che un palato anche non allenato riesce a distinguere fa le varie agavi.
I bartender li usano per rendere più complessi  i cocktail a base tequila ed è sempre maggiormente in uso il taglio al 50% fra i due prodotti per realizzare i grandi classici, dal Margarita al Matador.

Un po’ come fu per il whisky scozzese che differenziando fra Isole e Terre Alte diede al consumatore una gamma di profumi che andavano dalla cenere del camino a succosi frutti esotici determinandone il successo.

Da qui il crescente interesse per le agavi selvatiche, spesso di specie più rare, per produrre il mezcal  che vanno assolutamente tutelate per mantenere la biodiversità, senza dimenticare la sostenibilità che si traduce in rispetto dell’ambiente dove queste crescono senza l’uso di concimi e irrigazione forzata. Questa varietà va assolutamente tutelata. La vastità del territorio e le differenze di microclima, secondo alcuni, dovrebbe aprire ad un allargamento della zona di produzione ed ad una suddivisione in aree, come accade per cognac  ed armagnac ad esempio dove le acquaviti di vino sono suddivise in base alle loro caratteristiche organolettiche dettate dal suolo di coltura e dal biotipo coltivato.

Impensabile infatti una omologazione su una sola specie, ad esempio l’espadina, in nome di una maggiore produzione. Questo darebbe il via ad una “tequilizzazione” che i più tradizionali non vogliono, alla stregua dell’introduzione dei prodotti premium super filtrati con carboni attivi per eliminare una parte delle impurità.

Vedremo quale delle due anime vincerà. Se si manterrà lo spirito più tradizionale del mezcal,  un vero reperto archeologico della distillazione mondiale, o se si aprirà al mercato in nome dei numeri e dei mercati.

Ai posteri l’ardua sentenza.

  • #partesaperglispirits





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