Di recente, mezcal e tequila sono i due distillati più conosciuti del Messico. Li accomuna la materia prima, l’agave, ma chi dice che siano sostanzialmente uguali commette un grosso errore. Sarebbe come dire che grappa e cognac sono simili perché entrambi sono figli dell’uva.
Questa volta la storia c’entra ben poco, poiché la condividono. Il tequila infatti era un mezcal con indicazione geografica, con la quale i produttori dell’area volevano sottolineare la maggiore finezza rispetto ad altre proposte. Inizialmente si rimarcava soprattutto la differenza organolettica della materia prima.
Se il mezcal può essere fatto con svariati biotipi di agave, il tequila può essere prodotto solo con l’Azul che qui trovava il suo habitat d’elezione lungo le falde e gli altipiani del vulcano spento chiamato Ticuja. Suoli grassi, ricchi di nutrienti a base di argilla e marne, in grado di trattenere l’umidità, assicuravano piante rigogliose e ricche di inulina, lo zucchero complesso composto da molecole di fruttosio alla base della fermentazione. Questo si formava maggiormente all’epoca dell’unica fioritura della pianta, alla fine del suo ciclo vitale che poteva variare solitamente dagli otto agli undici anni. Con l’andare del tempo ci si accorse che questo tipo di agave, studiato da Frederic Albert Weber, dava risultati migliori in termini di profumi primari e grado alcolico. Pertanto l’area, a partire dai primi del Novecento, poiché il disciplinare produttivo prevedeva questa sola specie, arrivò ad essere coltivata su oltre centomila ettari.
Questa scelta non lasciò scampo agli altri biotipi, che oggi trovano spazio nella Raicilla, il distillato illegale (oggi prodotto da alcune aziende ufficialmente) della contea di Jalisco, dove si concentra quasi il 90% delle aziende produttive. Va infine detto che il tequila, quando non reca la dicitura “100% agave azul”, ammette l’arricchimento dei mosti con zucchero di canna (max 49% della massa): deroga necessaria a coprire il successo del prodotto, che non poteva marciare di pari passo con il ciclo naturale ma che ha sicuramente diminuito la tipicità rispetto al mezcal.
Passando al mezcal, le agavi scelte per la sua produzione sono tredici, ma ricordiamo che la totalità dei biotipi presenti superano i duecento.
La più usata probabilmente è l’Espadina o Angustifolia, almeno per prodotti importati in Italia, ma si possono usare anche la Oaxacensis, Americana, Durangensis, Salmiana, Rhodacantha, Maximiliana, Potatorum (Tobala), Cupreata, Invittata, Marmorata e Madrecuixe.
Veniamo ora alla cottura delle agavi. E’ infatti questo processo che differenzia maggiormente a livello olfattivo e gustativo il prodotto. Un passaggio fondamentale per rendere fruibile lo zucchero all’interno della pianta. Il trattamento termico infatti favorisce lo scioglimento dei legami fra molecole di fruttosio che formano l’inulina. Alcuni produttori tradizionali di tequila usano i forni in mattoni dei loro padri, all’interno dei quali i cuori delle agavi sono divise a metà e cotte delicatamente a vapore per oltre 36 ore, per poi aspettare il medesimo tempo che si raffreddino. Altri hanno scelto di ammodernare la tecnica installando delle autoclavi in acciaio, una sorta di gigantesche pentole a pressione, più veloci nella cottura (circa 8 ore) e nel raffreddamento, oltre che più facili da pulire. In tempi recenti si sono fatti largo i Diffuser, ossia macchine che, con un getto a pressione di acqua calda, estraggono l’inulina dalle agavi che viaggiano su una sorta di tapis roulant. Una volta ottenuto il liquido, si hanno due scelte: cuocerlo brevemente, o aggiungere un acido (come nella preparazione dello zucchero invertito) in grado di scindere l’inulina con grande risparmio di costi e tempi, sacrificando alcune tipicità organolettiche. Nel mezcal moderno, la cottura mutua i forni e le autoclavi del tequila; nel tradizionale ed ancestrale, la cottura avviene all’interno di forni tradizionali scavati a terra, rivestiti di pietre. Qui viene acceso un fuoco le cui ceneri roventi sono poi ricoperte di altre pietre e fibre di agave provenienti da distillazioni precedenti. Sopra questo strato, si adagiano le agavi che sono poi ricoperte di terra e altre fibre, per coibentare il forno. La cottura è lunghissima e dura qualche giorno, durante la quale spesso la popolazione faceva festa. Le parti esterne delle agavi più a contatto con la fonte di calore sono ovviamente bruciate, e questo dà il caratteristico sentore di cotto ed affumicato del mezcal. Ogni produttore può decidere, eliminando una maggiore superficie di carbonizzazione, la sua idea di gusto che in alcuni mezcal è piuttosto evidente.
La fermentazione aggiunge altre variabili. Le agavi del tequila sono spremute e solo il succo fermenta, spesso grazie e a lieviti selezionati. Il mezcal, non potendo vantare torchi azionati ad elettricità ma dalla forza animale, risulta ben più caratteristico. Inoltre molti produttori lasciano alcune fibre all’interno del liquido per aggiungere carattere al distillato, e quasi sempre l’attivazione della fermentazione è spontanea, grazie ai lieviti presenti nell’aria, o con lieviti madre patrimonio di ogni distillatore.
Infine gli alambicchi. Nel tequila solitamente le aziende dichiarano l’uso esclusivo di alambicchi discontinui, ma il disciplinare, non menzionandoli nelle pratiche vietate, non esclude l’uso delle colonne ad alto grado con sistema continuo. Per il tequila tradizionale si parla sempre di alambicchi, con capiente caldaia e breve colonna a piatti (a basso grado) a sostituire l’elmo, per selezionare le frazioni alcoliche. Il materiale può essere rame o acciaio, quest’ultimo preferito soprattutto per il primo passaggio. Per il mezcal tradizionale il progresso ha portato in dote piccoli alambicchi di rame, metallo assai costoso, almeno per i produttori super artigianali di questa area, che spesso adoperavano questo materiale solo per l’elmo. La caldaia spesso era quasi sempre in muratura o terracotta. In alcuni casi anche l’elmo era fatto con la terracotta, e per questo motivo erano detti claystill, ossia alambicchi di argilla.
Infine una differenza, questa volta visiva, evidente: il gusano, la larva di coleottero che spesso si vedeva sul fondo delle bottiglie di mezcal commerciale. Fu una trovata di marketing nata all’indomani della legalizzazione del distillato nel 1995, ed oggi è praticamente inesistente nelle produzioni tradizionali.
A prescindere da quest’ultimo futile argomento, il tequila esprimerà i profumi della materia prima vegetale, il succo di agave, con una leggera nota dolce vanigliata e piccante di pepe nero. I prodotti di nuova generazione hanno infatti eliminato la caratteristica nota acetica, molto tipica, che si sviluppava nelle produzioni degli anni Novanta. Il mezcal ha meno uniformità di assaggio. Le agavi diverse imprimono note vegetali più variegate, su un sottofondo di camino spento e frutta cotta. In alcuni prodotti si sente la caratteristica nota acetica pungente, ricordi di acetone e crosta di formaggio, figli di una fermentazione e distillazione più che artigianale. La bravura dei produttori di mezcal è stata la capacità di tramutare quelli che potrebbero essere considerati errori in tipicità, firme caratteristiche di un prodotto, contrapposte all’ordinata riconoscibilità del tequila.
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