Cambiamenti e rivoluzioni nel mondo del whisky

di Fulvio Piccinino


Per molto tempo gli appassionati meno attenti hanno individuato nella Scozia l’unica patria conosciuta per il whisky. Altri volgevano il loro sguardo all’Irlanda, in un simpatico dualismo che ricordava quelli dei gruppi musicali degli anni Ottanta, mentre in tempi recenti i più modaioli hanno trovato nel terzo incomodo, il Giappone, la nuova terra promessa. In realtà altre nazioni si sono affacciate su questo mercato con successo, negli ultimi dieci anni, spesso sfruttando un mercato interno piuttosto ricco. A tal proposito, quattro fra i primi dieci whisky più venduti al mondo sono prodotti in India. Il blended whisky Officer’s Choice, al secondo posto di questa classifica, nel 2018 ha venduto 34 milioni di casse da 9 litri. Per dare un’idea dei volumi, Aperol, il primo brand italiano in classifica, di cui tutti noi conosciamo la forza, si ferma a 4,9 (fonte: Spirit Business).

Tornando alle nazioni della new age del whisky, non possiamo non menzionare la Francia che, da maggior importatore europeo di whisky scozzese, ha ormai da qualche decennio avviato una sua produzione con ottimi risultati. D’altra parte la tradizione transalpina, specie nelle regioni del nord al confine con il Belgio, può contare su una radicata conoscenza della lavorazione in alambicco dei cereali grazie alla produzione di graanjenever, il distillato aromatizzato con le bacche di ginepro le cui qualità organolettiche ricordano molto da vicino un whisky giovane piuttosto che un gin. Questa expertise ha fatto bruciare le tappe a questa scuola, tanto che nel 2015 sono stati pubblicati i disciplinari europeo del whisky alsaziano e bretone con alcuni parametri che attingono dalla tradizione del cognac. Una sorta di anomalia temporale che sottolinea la forza di volontà francese, poiché per ottenere il riconoscimento europeo spesso è necessaria (si guardi per esempio al Vermouth di Torino) una storicità secolare di radicamento nel territorio. La produzione avviene all’interno di alambicchi discontinui, con capacità di 2.500 litri la cui acquavite non deve superare gli 80 gradi finali. Di fatto con questo parametro si esclude l’uso della colonna ad alto grado, consentita invece nella produzione scozzese dei blended whisky. In pratica l’acquavite di cereali francese porta con sé i valori e i criteri produttivi del single malt, la classe di maggior prestigio degli highlanders. L’invecchiamento di legge ricalca i dettami europei con 3 anni in botti di rovere della capacità massima di 700 litri con la possibilità di finish in legni diversi. D’altra parte la Francia, dotata com’è di pregiati vini dal Barzac al Bordeaux, non poteva non sfruttare questa possibilità per connotare elegantemente i suoi malti.

Ma le vere sorprese sono altre. Per la prima volta l’Inghilterra ha superato la Scozia come numero di distillerie, 186 a 228. Anche se alcune di esse sono controllate dai colossi scozzesi, e producono gin, presto la quasi totalità sarà pronta con il suo whisky spostando gli equilibri del mercato. Il distillato di ginepro infatti, non necessitando di invecchiamento, risulta essere il prodotto che permette di ammortizzare fin da subito le spese, ma tutti non nascondono la loro vera ambizione ossia l’ingresso nel mercato dei malti super premium. Mentre ancora più grande potrà essere lo stupore nell’apprendere che negli Stati Uniti, patria indiscussa del bourbon, è nata la denominazione American Single Malt Whisky che conta ben 170 etichette. Un successo cha appare inarrestabile e che presto si doterà di un disciplinare ben preciso per tutelare gli appassionati del genere. Regolamentazione del bourbon che ha visto nel 2020 l’ingresso, insieme a Tennessee e Kentucky, del Missouri. Il più grande produttore di mais degli Stati Uniti ha quindi deciso di mettersi in proprio, imponendo anche l’uso esclusivo di botti ottenute dalle querce bianche che popolano i suoi boschi.

Chiudiamo con un’altra nazione che ha bruciato le tappe: il Giappone. Praticamente settanta anni dopo la fondazione della prima distilleria di una certa importanza in Giappone, la Nikka, abbiamo avuto l’istituzione del disciplinare del whisky giapponese, già entrato in vigore ma che lascia una transizione di un paio di anni per l’adeguamento delle distillerie. Anche in questo caso si tratta di un vero record poiché, se nel caso francese si parla di un pugno di distillerie da mettere d’accordo, con all’attivo qualche decina di migliaia di ettolitri, qui parliamo di una produzione massiccia che specialmente nell’ultimo periodo ha spuntato prezzi molto simili ai best seller scozzesi. Per redigere le loro regole, i giapponesi sono andati sul sicuro ed hanno evitato accuratamente di concentrarsi solo sui single malt, poiché hanno una cronica mancanza di prodotti invecchiati, per via del successo che questi riscuotono. Pertanto hanno fissato in 95 gradi il massimo ottenibile da una distillazione in colonna, lasciandosi aperta la porta del blending con i grain ed i single grain, mantenendo invariato il periodo di invecchiamento, 3 anni. Conoscendo il rigore giapponese e la ricerca estrema della qualità, non sono infatti caduti nella tentazione di abbreviarlo, magari di un anno, per poter accedere prima alle botti e poter rifornire velocemente il mercato con dei blended. La novità vera del disciplinare è rappresentata dalla scelta coraggiosa delle materie prime. I cereali (e l’acqua) dovranno essere giapponesi, così come l’intero ciclo di lavorazione dovrà svolgersi sul territorio nazionale. Un vincolo a prima vista molto forte, pensando ai volumi espressi ed alla superficie agricola dell’isola. Per offrire un paragone, la Francia, il maggior produttore europeo di cereali, impiega poco meno della metà della sua superficie nazionale all’agricoltura, pari a 27 milioni di ettari, mentre il Giappone per la sua conformazione montuosa vanta solo il 13% pari a 4,7 milioni di ettari. Per questo motivo, in passato la quasi totalità delle distillerie si rifornivano di orzo e cereali maltati dall’Europa, mentre oggi se ci si vorrà fregiare della IGP non sarà più possibile. A questo punto è facile pensare che questo disciplinare sarà sfruttato per creare un’ulteriore segmentazione del mercato. Ci saranno quindi whisky giapponesi senza indicazione ed una ristretta produzione di super premium con la preziosa IGP dai costi molto elevati. Un po’ come capita, facendo le debite proporzioni, alle nostre latitudini con le indicazioni geografiche Vermouth di Torino e con il Brandy Italiano, dove le uve devono provenire dai nostri vigneti.
Non c’è che dire, i giapponesi sembrano avere assimilato velocemente la lezione dai francesi e dagli scozzesi, e da semplici copioni, come erano spesso definiti spregiativamente, sono diventati veri geni del marketing. Moto ed elettronica sono lì a dimostrarlo da molto, per gli spirits era solo questione di tempo.

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