Antropologia dell'artemisia

di drinKing


La grande tradizione erboristica araba, greca e romana cresciuta all’ombra del bacino del Mediterraneo, venne catalogata e studiata dalla Scuola Medica Salernitana.
Un crogiuolo di culture che prese forma dopo la liberazione di Gerusalemme nel 1099 con l’arrivo dei testi di Rhazes ed Avicenna che si incontrarono con quelli di Dioscoride, Ippocrate e Galeno. La magica alchimia di queste civiltà diede vita alla cultura europea che si diffuse nei secoli a seguire e che è giunta fino a noi grazie al lavoro di monasteri e nelle abbazie. Questi luoghi di culto non furono gli unici luoghi del sapere medioevali ma detenendo quello fondamentale della scrittura ed il segreto della costosa fabbricazione di pergamena e carta furono gli unici a poterlo tramandare. Non sappiamo quante opere possano essere andate perse, e quante cancellate per far spazio a nuove scoperte ma indubbiamente le mura protette dai simboli sacri furono uno dei luoghi più sicuri nella turbolenta epoca medioevale. Le traduzioni in latino e poi in volgare manoscritte pazientemente, fino all’arrivo della stampa, resero possibile lo studio della medicina, dell’erboristeria e della distillazione nella vita sociale, emancipandoci dalla magia e le superstizioni.
La medicina erboristica che per secoli preservò la vita degli uomini e diffuse la conoscenza delle virtù dei semplici nacque da lunghe sperimentazioni e tentativi. In questo contesto alchemico, a metà fra magia e raziocinio si colloca la Mater Herbarum, nome coniato a Salerno, con il quale conosciamo l'artemisia fin dalla notte dei tempi, definita da Ippocrate una pianta muliebre ovvero adatta soprattutto a curare e guarire le donne ed i bambini. In questa città nasce il primo giardino botanico del mondo per opera di Matteo Silvatico che dà vita ad un erbario: l'Hortus sanitatis, stampato per la prima volta a Magonza nel 1491 che portò il sapere delle erbe in tutta Europa. Contemporaneamente a questa opera troviamo gli scritti alchemici e farmaceutici di Michele Savonarola, Biringuccio ed Alderotti che elevavano al scuola di distillazione italiana ai massimi livelli.
L’ aquavita compositae, frutto della macerazione e distillazione delle erbe, ebbe grande seguito e trovò la loro massima espressione nei libri dei segreti, vero e proprio fenomeno editoriale del Cinquecento e Seicento fra cui ricordiamo le pubblicazioni di Piemontese, Cortese e Falloppio.
Ma concentriamoci adesso sull’artemisia, sulle sue varietà ed al suo ruolo nella liquoristica che fin dalle sue origini ebbe un utilizzo ad ampio spettro passando da antidolorifico, disinfettante e vermifugo, fino a diventare tonico, eupeptico e corroborante. Costantino Cesare, nel 1549 scrisse il De noteuoli et utilissimi ammaestramenti dell'agricoltura dove affermò che nelle campagne italiane si producesse un vino amaricato con assenzio probabilmente nella varietà Romano e Gentile.
Questo vino viene chiamato ancora oggi, così come l’erba, in vari modi ma la radice comune è il suo essere benefico: Bonmè in Piemonte, Bonmegu in Liguria, Benefort in Valle d’Aosta, Bonmaisto in Trivenento ovvero buon medico o buon maestro. Una presenza scenica  unica che attraversa l’Europa lungo tutto l’arco alpino, partendo dalla Francia fino ad arrivare alla Slovenia. Non esiste infatti un altro principio aromatico che risulti fondamentale per un numero così elevato di prodotti. In Francia troviamo la Fata Verde, l’Absinthe per eccellenza anche se pochi sanno che le sue origini sono svizzere e che era privo di colorazione. La Blanchette, così si chiama la prima versione del distillato di erbe, non aveva nessuna macerazione successiva di erbe ricche di clorofilla. In Italia abbiamo il re degli aperitivi, il Vermouth di Torino, infine percorrendo fino in fondo le Alpi giungiamo in Slovenia, dove viene prodotto il Pelinkovac, dove la radice è Pelin, il nome dell’artemisia. Il prodotto ha altre declinazioni locali in Serbia e Croazia dove la base può essere alcolica o a base vino. Partiamo dal primo, di cui non percorreremo la storia travagliata di cui, bene o male, tutti siamo a conoscenza. E’ importante però sapere che questo prodotto ha un disciplinare produttivo che prevede 20 erbe fra cui figurano anice verde e stellato, i veri marcatori del suo gusto, e melissa e menta che invece sono spesso le responsabili del colore verde della successiva macerazione insieme ad una piccola quantità di assenzio gentile, meno amaro del romano. Nel caso della Blanchette le erbe non cambiano ma non abbiamo quest’ultima operazione così come è leggermente diverso il profilo aromatico che risulta più dolce per via di un uso più pronunciato dei semi di finocchio e anice. Infatti il consumo alla francese della Vert prevede il rituale dello zuccherino sciolto grazie al gocciolamento della fontana d’acqua, cosa non necessaria per lo svizzero. Il solvente della macerazione è alcol etilico di origine agricola mentre non ci sono indicazioni sui tempi. Passiamo al Vermouth di Torino le cui radici medicinali sono dimostrate dalla presenza di vini all’assenzio sulla Farmacopea Taurinensis. L’arrivo dello zucchero di barbabietola fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento cambiò per sempre la storia di questo prodotto tramutandolo in un prodotto di benvenuto. In questo caso la base di macerazione era il vino, solitamente bianco. L’alcol veniva utilizzato dopo la macerazione nel vino per fortificare il prodotto per conservarlo e solo successivamente si pensò ad una più efficace estrazione in grado di esaurire completamente i principi aromatici presenti nelle piante.
Il disciplinare prevede circa 100 principi aromatici tradizionali utilizzabili, con l’obbligatorietà di 0,5 grammi di artemisia per litro. Fra questi, nelle ricette dei testi storici troviamo genziana, rabarbaro, china, coriandolo, galanga, achillea e salvia sclarea. Chiudiamo con il Pelinkovac che ha una stretta parentela con le preparazioni a base di assenzio vino o alcol dell’impero Austroungarico di cui l’ungherese Unicum è il più famoso rappresentante. D’altra parte Giovan Vittorio Soderini, coevo di Cesari, nel 1570 scriveva che anche ungheresi e tedeschi producevano un vino aromatizzato con assenzio, rosmarino e salvia che veniva usato nella cura delle infezioni intestinali.
Prima di chiudere torniamo indietro un attimo in Piemonte e Valle d’Aosta per parlare di un altro liquore a base di artemisie, il Genepy, oggetto di una grande rivalutazione, grazie anche al recente disciplinare produttivo. Questo autorizza l’uso delle varietà, genipi, mutellina, glacialis, nivalis e petrosa che vengono macerate in alcol.
Oltre a questo recita la presenza obbligatoria di 7 grammi di artemisie delle specie autorizzate, e tempi di macerazione da svolgere in alcol, dai 30 ai 60 giorni.
Come si può ben vedere i rappresentanti di eccellenza non mancano, per tacere delle altre decine di liquori ed amari dove l’artemisia rappresenta comunque un ingrediente importante ma non obbligatorio. Pur non conoscendo le formule dei principali amari commerciali ed artigianali che costellano lo stivale viene difficile pensare che, specie se la formula affonda le sue radici nella storia, non ci sia una varietà di artemisia.
Non ci resta che scegliere con quale prodotto brindare.

Cin Cin.  

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