Ci sono tantissimi falsi miti che circolano ancora sui banchi bar che sembra impossibile che, con anni di informazione e fiumi di inchiostro spesi, possano ancora essere vivi e vegeti.
Questo pezzo più che ai bartender per cui si auspica che certi concetti siano stati abbondantemente assimilati negli anni è forse dedicato ai loro clienti i quali sono spesso vittime di una informazione sommaria sulla rete.
Lo dico, parlando per una volta in prima persona, perché durante i miei eventi di Esperienza o Master Class sulla distillazione per appassionati spesso mi sento rivolgere le domande che presto andremo a leggere dove spesso si fa fatica a trattenere una smorfia di stupore.
Questo problema appartiene a tutte le categorie, sia ben chiaro. Facciamo una breve parentesi in un mondo affascinante e sicuramente oggetto di molte attenzioni da parte dei media quello degli insetti impollinatori. Recentemente durante un convegno sull’apicoltura a cui ho partecipato, in quanto grande appassionato da sempre, una persona affermava con convinzione che la sua bellissima frutta venisse costantemente mangiata dalle api. Quando è dagli inizi del Novecento che, con articoli di giornale e pubblicazioni specializzate, si cerca di combattere questa credenza che vedeva questi operosi insetti spesso soccombere sotto l’uso di insetticidi. L’obiezione è caduta, non senza qualche titubanza, quando è stata proiettata la foto di una vespa, dotata di forti mandibole in grado di lacerare la buccia, riconosciuta dalla persona come la responsabile del danno.
A proposito di frutta, partiamo dall’uva e dal primo mito.
Spesso si sente dire che il vermouth ed in genere i vini aromatizzati come il Barolo Chinato si fanno con il vino delle vendemmie sovrabbondanti o con un vino affetto da qualche malattia. Questa lettura distorta nasce da un decennio di sofisticazioni di questi prodotti, le cui pratiche erano supportate anche da libri tematici che oggi sarebbero impubblicabili. Il culmine si ebbe negli anni Settanta poiché il consumo, sia di vino che dei suoi derivati era così elevato che le partite meno qualitative, magari con qualche difetto, o i cosiddetti torchiati erano effettivamente destinate ad essere conciate. Ed infatti questo portò ad un declino della categoria per la totale disaffezione dei clienti, da cui si salvarono solo poche aziende. Ma se andiamo ad analizzare i testi di fine Ottocento, il periodo d’oro della categoria, sui manuali di enologia si consigliava sempre un vino con ottima struttura ed acidità. L’uso dell’alcol era funzionale per raggiungere i 16 gradi alcolici soprattutto se il vermouth era oggetto di esportazione. Sarebbe impossibile per un vino con poco acido o malato sostenere la presenza delle erbe per lungo tempo senza creare flocculazione poiché, tranne in rari casi, come cannella o chiodo di garofano, queste favoriscono l’ossidazione.
Passiamo ora al gin.
Talvolta si sente parlare di Gin Old Tom o Gin Vittoriano per via del suo periodo di massimo successo. Di fatto, fu l’anello di congiunzione fra l’olandese jenever e la scuola inglese. Nel primo, oltre all’uso dell’acquavite di malto c’erano alcuni elementi botanici come la liquirizia, i semi di finocchio o di anice che rendevano più dolce e morbido il profilo. L’Old Tom essendone il suo discendente diretto manteneva questa nota dolce pur essendo meno maltato. Un aroma rotondo, complesso meno intenso pertanto nettamente diverso dal più secco, balsamico e pungente London Dry che notoriamente può contenere solo 0,1 grammi di zucchero per litro e nelle versioni tradizionali raramente arriva ad avere cinque elementi aromatici. Ora non si capisce per quale motivo da qualche parte sia nata la leggenda che, in mancanza di un Old Tom a scaffale sia sufficiente aggiungere qualche centilitro di sciroppo di zucchero al povero malcapitato ottenendo un ibrido che nulla ha che a vedere con l’originale.
Passiamo alla vodka.
A livello europeo questa è definita come un alcol etilico di origine agricola distillato ad un minimo di 96,4 gradi. Spesso si sente dire che patate e cereali sono le uniche materie prime consentite e che i tuberi sono stati all’origine del prodotto. Affermazione quanto mai errata poiché l’uso alimentare arrivò molto tardi nella storia, secoli dopo l’uso dei cereali per produrre alcol. Inoltre essendo di origine agricola questa potrà essere distillata anche da vino, sidro o qualunque altra materia fermentescibile come la linfa di betulla. La questione è legata esclusivamente alla resa in alcol ed al costo che ad esempio rende un suicidio commerciale una vodka ottenuta fermentando lamponi o kiwi. Infine la vodka come la conosciamo oggi, ovvero un alcol superiore ai 96 gradi, rende impossibile la storia che si sente spesso di un’origine tardo medioevale ad opera di un alchimista polacco. La distillazione discontinua l’unica possibile fino alla fine del Settecento non permetteva di raggiungere certe gradazioni. Cosa che divenne realtà solo con l’avvento delle colonne il cui brevetto risale al 1813 e che divennero altamente performanti solo qualche decennio dopo. La vodka è pertanto il prodotto più giovane nella storiografia dei distillati, se si esclude il brandy italiano nato, a livello legale, solamente nel 1953 ma figlio della lunga tradizione del cognac all’italienne.
Chiudiamo il paragrafo distillati sempre con il vino parlando di pisco.
Non vi è mai capitato di sentire l’obiezione per cui noi italiani, con tante buone grappe, perché mai dovremmo acquistare questa acquavite di vino peruviana. In pratica questa rappresenterebbe un doppione inutile sul nostro scaffale. Se da una parte possiamo sicuramente vantare un grande assortimento di ottime acquaviti di vinaccia in grado di soddisfare ogni palato, queste sono ottenute dalle bucce e non dal vino. Il profilo organolettico è sicuramente diverso pertanto se vogliamo proprio difendere l’italianità e presentarci come fautori di una nuova autarchia dovremmo semmai parlare della nostra proposta di acquaviti d’uva, invero non così comuni nella proposta delle distillerie. Queste quantomeno hanno qualche punto di congiunzione maggiore con il pisco, parlando soprattutto di Mosto Verde, essendo ottenute da mosti e vini prima della torchiatura e che, pertanto, hanno un profilo organolettico molto più fruttato per via della presenza della polpa.
Concludiamo con il re dei falsi miti legato al fatto che aggiungere zucchero ad un distillato ne aumenti il grado alcolico.
La cosa è sicuramente vera nella fermentazione, infatti in presenza di mosti poveri di zucchero, se consentito dalla legge, si può addizionare dello zucchero per aumentarne il contenuto alcolico. Ma questo è un processo chimico. Ma se lo aggiungiamo ad un distillato fatto e finito in quantità importanti, riferendoci al disciplinare dei liquori immaginiamo un minimo di 100 grammi litro, ne aumenteremo il volume, pertanto ne abbasseremo il grado. E scordiamoci che questo si trasformi in nuovo alcol nel nostro stomaco poiché al suo interno non abbiamo lieviti in grado di svolgere questa operazione. Inoltre l’ambiente sarebbe quanto mai di più ostile si potrebbe offrite ad un saccaromiceto che comunque impiegherebbe comunque del tempo per iniziare le operazioni di trasformazione. Pertanto l’unica cosa che otterremo è di affaticare il nostro fegato alle prese con la digestione dello zucchero e lo smaltimento dell’alcol che, alla lunga, prolungando questa pratica deleteria, potrebbe presentare steatosi (fegato grasso) o problemi ben più gravi.
- #partesaperglispirits