La storia dei cocktail è uno degli argomenti più dibattuti a livello di bartending.
Emblematico il caso del Martini Cocktail, un’icona della miscelazione, su cui sono stati spesi fiumi di inchiostro su quali siano la ricetta e il metodo di preparazione corretti. La sua fama è innegabile, tanto da pensare che possa essere il coprotagonista di molte pellicole, dalla fortunata serie di James Bond ai film “Il grande Gatsby” e “L’Appartamento”.
Le ricette di Harry Johnson (“Bartender’s Manual”, 1900)
Il cocktail nasce probabilmente alla fine dell’Ottocento, essendo stato codificato da Harry Johnson nel suo “Bartender’s Manual” del 1900, dove troviamo due ricette. Qui capiamo come il vezzo dell’Agente 007 sul Martini agitato e non mescolato non sia propriamente originale, e come la regola secondo cui il vermouth non si shakera sia tutto sommato recente e opinabile.
La prima ricetta del Martini Cocktail è mescolata, mentre la seconda, il Bradford à la Martini, è shakerata. Entrambe hanno pari quantità di Old Tom Gin e vermouth. Di quest’ultimo non viene indicata la qualità, se un Torino (dolce) o un French (secco). Prima di agitare nello shaker o mescolare nel mixing glass, si versano alcune gocce di orange bitter. La decorazione è un’oliva.
La ricetta di Frank Newman (“American-Bar, boissons anglaises et américaines”, 1904)
Una seconda codifica si trova nel testo di Frank Newman, “American-Bar, boissons anglaises et américaines”, pubblicato nel 1904 a Parigi. La ricetta è ancora una volta fatta di pari quantità di vermouth, questa volta vermouth di Torino (dolce), e gin. Questo particolare avvalora le affermazioni di alcuni barman del passato, uno su tutti il grande Angelo Zola, secondo cui l’attuale formula, eccessivamente secca, non sia aderente o sia una deformazione recente rispetto alla storia del cocktail. Nel mixing glass si versano, prima di rimescolare, tre gocce di Angostura. Il bicchiere, ben freddo, si guarnisce con uno zest di limone ed un’oliva, che può essere sostituita da una ciliegia al maraschino.
La ricetta di Ferruccio Mazzon (“La guida del barman”, 1920)
Una conferma sull’uso del vermouth dolce ci arriva anche da “La guida del barman” di Ferruccio Mazzon, del 1920. Nel capitolo dedicato ai cocktail, fa bella mostra di sé un Martini Cocktail prodotto con vermouth di Torino, Old Tom gin e gocce di Angostura, decorato con scorza di limone.
La ricetta di Robert Vermeire (“Cocktails: how to mix them”, 1922)
L’abbinamento tra marca di vermouth e cocktail viene proposto per la prima volta da Robert Vermeire nel 1922, nel suo “Cocktails: how to mix them”. L’autore infatti sottolinea come il cocktail debba essere sempre preparato con vermouth di casa Martini e Gordon gin. La ricetta inizia a divenire più secca, con una dose di 2 a 1 a favore del gin. La decorazione è sempre una scorza di limone. Ancora una volta, non viene indicato se il vermouth sia secco o dolce.
La ricetta di George Pillaert (“Le bar américain cocktails”, 1935)
Ad ingarbugliare ulteriormente le cose arriva nel 1935 il libro “Le bar américain cocktails” di George Pillaert. L’autore riporta una ricetta chiamata Vermouth Cocktail, con pari quantità di vermouth Martini Dry e Gordon Gin, mentre alla voce Martini Cocktail troviamo pari quantità di Noilly Prat Dry e Gordon Gin.
Ne deduciamo che il mondo del bar fosse quanto mai frazionato ed in mano alle interpretazioni personali. Motivo per cui nel Dopoguerra arriveranno le codifiche IBA (International Bartender Association), con i 50 cocktail la cui ricetta sarà ufficializzata da una pubblicazione.
Origine del nome “Martini”
Come sappiamo, “Martini” è anche il nome di un noto vermouth torinese, ma nelle ricette iniziali non ne viene mai citata la marca, mentre la parola “Dry” è evidente sia un’aggiunta successiva, quando si prese ad usare questa tipologia di vermouth, tipica della tradizione francese.
Alla luce di quanto letto, sembra ormai priva di significato la teoria del barman Martini, inventore di questo mix presso il Knickerbocker di New York nel 1906, dove servì nientemeno che John D. Rockefeller con questa delizia. Per altri autori, il nome del barman era il ligure Queirolo e il nome Martini era quello della madre.
Infine, per altri ancora, vista la somiglianza di ingredienti con il cocktail Martinez, il Martini ha avuto vita grazie ad un lieve cambio di ricetta ed alla storpiatura del nome nella trascrizione inglese-italiano.
Martini agitato o mescolato?
La questione legata alla preparazione si trascina per tutti gli anni Venti fino ai Quaranta. Robert Vermeire sostiene che il classico Martini venga mescolato, ma che in America ci sia l’abitudine di shakerarlo. Questo fino ad arrivare a Grassi, che nel 1936 propone cinque ricette di Martini, tutte agitate, riportando i nomi dei relativi autori. La tesi dello shaker come unico strumento di lavoro è sostenuta anche da Embury nel 1948, nel suo “The fine art of mixing drinks”. La questione viene poi definitivamente risolta nel 1956 da Ian Fleming, che fa bere un Martini shakerato a James Bond nel film “Una cascata di diamanti”.
La decorazione
Parliamo adesso della decorazione. Lo zest di limone appare abbastanza scontato per il periodo, complemento ideale del vermouth, poco costoso e disponibile tutto l’anno a qualsiasi latitudine. Più originale l’oliva, presente anche nella prima versione, che in seguito divenne da facoltativa quasi obbligatoria. Il cambio potrebbe essere spiegato con l’avvento del vermouth francese. Il Noilly Prat, prodotto a Marsellaine in riva al Mar Mediterraneo, si caratterizza per note iodate e sapide, dovute all’invecchiamento in botti esposte alla salsedine. Pertanto l’oliva era il perfetto complemento, così come nel Dirty la sua salamoia.
Chiudiamo il post citando il maestro Mauro Lotti: “Non esiste il Martini perfetto, ma c’è un Martini per ognuno di noi. Basta solo scoprire quale sia”.
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