Grappa e cocktail: facciamo chiarezza una volta per tutte

di Fulvio Piccinino


La miscelazione a base grappa si affaccia in maniera ricorrente sul palcoscenico del bartending, questo non appena vengono lanciate nuove grappe o si rinnovano gli investimenti di marketing. Spesso se ne fa una questione di patriottismo ed italianità, e si afferma che i barman italiani siano esterofili pertanto incapaci di guardare a casa loro, alla perenne ricerca di novità provenienti da oltre confine. Non si può non ripensare agli anni Duemila e all’entusiasmo per i vodka bar che lasciarono il posto alle rumerie e, in tempi recenti, alle gintonerie. Ma se questa può essere una spiegazione, non può essere certo l’unica. Dobbiamo infatti comprendere perché la grappa non abbia mai avuto un suo momento di gloria in miscelazione se si eccettua l’autarchia del Ventennio, dove fu praticamente imposta, e il decennio d’oro degli Anni Settanta del Novecento, con le splendide pubblicità che sostennero il suo percorso virtuoso di crescita qualitativa. Ma nonostante gli sforzi, gli slogan di Mike Buongiorno e la splendida Bionda nel Sacco, la grappa tornò nelle retrovie nel decennio successivo. Dobbiamo inoltre sfatare il mito che si sta facendo strada in alcuni giovani (e non) bartender che la nascita della miscelazione a base grappa sia un’invenzione dell’ultimo decennio. Sicuramente in questo lasso di tempo sono nate grappe, grazie allo sviluppo tecnico della distillazione, nel cui nome o sottotitolo facevano menzione di questa opportunità. Grappe con basse grammature di sostanze volatili che hanno permesso ai giovani paladini dell’italianità ben altre prestazioni rispetto ai loro colleghi del passato. Ma prima di affrontare il discorso produttivo affrontiamo quello storico.

Nel 1967 la Distilleria Gambarotta di Serravalle Scrivia indisse un concorso di cocktail in collaborazione con la rivista dell’Aibes, Shaker Club. Tutto nacque dalla passione di Elio Inga, titolare della distilleria, e Angelo Zola, indimenticato presidente dell’Associazione Barmen e Sostenitori nata nel 1949. La competizione fu sostenuta a tamburo battente dai giornalisti Cendali, Marinatto e Zingales, che gli dedicarono più di un articolo. Vinse Giovanni Barisone con il cocktail Sprint la cui ricetta era 2/5 di Amaro Gambarotta, 2/5 di Grappa Stravecchia Gambarotta (oggi Libarna), 1/5 di Grand Marnier e 2 gocce di crema cacao. Tre anni dopo, nel 1970, a Udine ha inizio il secondo Convegno Nazionale della Grappa, con il patrocinio dell’Assessorato all’Agricoltura. Durante lo svolgimento era previsto, ancora una volta in collaborazione con Aibes, un concorso fra barman. I partecipanti erano considerati l’elite della categoria: i barman di albergo. Il primo classificato fu Enzo Grippa dell’Hotel Luna di Venezia con Alba Alpina 50% grappa, 30% menta bianca, 20% succo di limone, alcuni chiodi di garofano a decorazione. Dopo di loro il buio, almeno a livello ufficiale. Arriviamo al 2014 con la riproposta della Miscelazione Futurista che ebbe il merito di riportare attenzione sulla grappa, destando molto scalpore per gli abbinamenti di gusto. Questo movimento di miscelatori italiani diede inizio ad un lento lavoro di riscoperta, che però nel lungo termine non diede i frutti sperati. Le aziende infatti non investirono sui temi di rottura della tradizione proposti nelle polibibite (i cocktail futuristi), preferendo tornare ai classici abbinamenti dove spesso si inseriva anche la cucina. Tema spesso utilizzato anche in passato, dove però spesso tutto si riduceva allo sfumare un bicchiere di acquavite sulla carne in cottura. In altri casi si ritornò al super classico, lavorando in collaborazione con barman conosciuti, spesso completamente ignari del prodotto in senso assoluto, conosciuto attraverso una rapida visita in distilleria. Ma, anche in questo caso, l’appeal esercitato sulle nuove leve era proporzionale al tempo in cui il personaggio famoso aveva in mano la bottiglia. Risultati migliori si ebbero quando questo tipo di manovre erano inserite in ben più ampi piani marketing di promozione del brand. Si ricorse anche alla rivisitazione di alcuni classici, sostituendo la grappa al distillato base senza che vi fosse un criterio nel farlo, pensando solo alla diffusione del cocktail come se bastasse il nome a sdoganare il prodotto. Questo diede vita a successi temporanei determinati dalla caparbietà e dalla passione dei singoli barman sul territorio, ma mai un vero e proprio movimento omogeneo come accaduto per rum, vodka e gin.

Il problema è che nessuno ha mai affrontato il problema in maniera per così dire scientifica: perché la miscelazione a base grappa non riesce a sfondare? Innanzi tutto per miscelare un prodotto bisogna conoscerlo, ma in Italia possiamo produrre grappa con tutto il patrimonio ampelografico italiano che consta di oltre 500 vitigni, aromatici e non. Impossibile conoscerli tutti. Per distillare possiamo passare dal fuoco diretto, al bagnomaria fino alle caldaiette a vapore fino agli impianti continui a vite rotante. Modi completamente differenti di lavorare la materia prima. Avere un prodotto univoco è praticamente impossibile. Non possiamo quindi dire, come nel cognac, rum o whisky, che ci sia uno stile riconosciuto dove bene o male le differenze sono perlopiù stilistiche ma non sostanziali. Ne consegue che è impossibile fare un cocktail con la grappa ed avere un risultato omogeneo lungo tutto i bar della penisola. Un vero problema, poiché la standardizzazione del gusto è l’elemento fondamentale del successo nella fascia commerciale del mercato, come ci insegna il successo dello Spritz.

Passiamo ora ai barman. La prima risposta che tutti danno è che qualunque cosa si mescoli con la grappa, quest’ultima esce sempre e comunque come protagonista, contravvenendo ad una regola base della miscelazione: l’equilibrio. Da qui in poi dobbiamo riflettere sul perché. La grappa ha una grammatura di sostanze volatili pari ad un minimo di 140 grammi per ettolitro di alcol anidro (alcol a 100 gradi). Il rum agricolo 225, l’acquavite di vino (cognac, armagnac) 125 e la vodka 20. Da qui si evince l’ordine di grandezza del numero di cocktail ad essi dedicati: mescolare vodka è sicuramente più facile che farlo con la grappa, essendo alcol etilico praticamente puro. Solo negli anni Settanta alcune analisi portarono alla luce acquaviti di vinaccia con 2.000 grammi di residuo, un numero altissimo se pensiamo che urliamo compiaciuti di fronte all’intensità ad un bicchiere contenente alcuni rum giamaicani che ne dichiarano 1600. Di per sé 140 grammi non sono quindi molti ma dobbiamo capire come e perché possano influenzare così tanto il gusto e come sono composti. La grappa non fa mistero di avere la sua firma aromatica negli alcol di coda, ovvero ricchi di profumi ma anche di sostanze oleose. Queste derivano dalla composizione della materia prima fatta di bucce e vinaccioli da cui notoriamente si estrae un prezioso olio. Ora, se la nostra grappa è ricca di queste sostanze, che sono insolubili in acqua, non appena sarà diluita con una bevanda sodata non potrà fare a meno di “segnarne” il gusto. L’esperimento da fare è semplice: allunga con acqua una grappa e se si comporta come l’assenzio e la sambuca, notoriamente ricchi di oli essenziali, opacizzando il liquido, ti trovi di fronte ad una grappa con molte code. Da queste, infatti, deriva quel gusto personale che non a tutti piace e che in passato dava, per un suo eccesso, anche difficoltà digestive a qualche bevitore. Essendo impossibilitati ad un’analisi elettronica della grappa scelta per la miscelazione, dovremo a questo punto capire se sia adatta ad essere diluita con una soda facendo delle prove esercitando il gusto personale. A questo punto, come ovviare al problema se si vuole comunque miscelarla? Semplice, bisogna accompagnare la grappa nei suoi profumi principali mescolandola con prodotti erbacei, balsamici, amaricanti e vinosi. Degustazione ed abbinamento, come si conviene ad un professionista del vino, di cui la grappa è figlia. E qui dobbiamo imparare dal passato dove era molto in voga il cocktail detto Grigioverde con grappa e menta, i futuristi la mescolavano con kummel e anice ed Elvezio Grassi proponeva lo Zuavo con elisir china, vermouth rosso e bitter. Otterremo lo stesso risultato mescolando elementi agrumati e fruttati su grappe aromatiche. Quindi, ritornando per un attimo al punto iniziale, una soda al pompelmo rosa funzionerà sempre e comunque meglio di un’acqua tonica che ha una scia amara supportata dagli oli essenziali di limone più tenue. Infine, se vogliamo creare “il gusto” della grappa, iniziamo a pensare a lei come ad un coadiuvante o ancora meglio ad un correttore. Scordiamoci per un attimo i 4 centilitri dedicati alla base del cocktail che spesso sono la causa del nostro fallimento aromatico e di bilanciamento. Iniziamo a pensare alla grappa ad un centilitro o anche a gocce per andare a dare un tocco vinoso o fruttato ad un cocktail con vino spumante o vermouth. Qualche goccia di grappa aromatica in un Bellini o in Kir Royal o Imperial possono cambiargli in meglio il profilo aromatico, specie se la frutta non è al suo massimo. Oppure pensiamo a cosa potrebbe essere un Negroni, dove non dobbiamo sostituire il gin ma aiutare il vermouth ad uscire con i suoi toni vinosi, con uno spoon di grappa. Le aziende spesso hanno cercato in nome dei volumi la soluzione della base alcolica dimenticando che il bitter Angostura ha creato un impero sulle gocce.

 

Per le foto si ringraziano Sgrappa e la fotografa Cristina Severina

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