Agave e Mezcal: tra tradizione e innovazione

di Fulvio Piccinino


Il mondo degli spirits sta cambiando e più che comprendere quanto accade a casa nostra, cerchiamo di curiosare sul mercato statunitense per cercare di catturare le nuove tendenze. Ma non tutto oro è quel che luccica pensando all’entusiasmo palesato per gli Hard Selzer che nel paese dello stivale hanno però avuto ben poco successo presso i giovani.

Stando al mercato a stelle e strisce stiamo assistendo ad una crescita a doppia cifra dei distillati da agave dove, secondo una recente ricerca, la tequila risulterebbe l’alcolico favorito da una larga fascia di giovani consumatori. La mixologia sembra trainare questo fenomeno e il Margarita rimane stabilmente nella top ten dei cocktail più richiesti.
Fra i motivi del successo ci sono sicuramente i profili organolettici dei prodotti che sono nettamente migliorati: sono scomparse le volatili acetiche sostituite da eleganti sentori di pepe e vaniglia che accompagnano sicuramente meglio un liquore che un semplice rituale sale e limone, la cui acidità copriva il “difetto”.
In pratica i messicani hanno ottenuto un prodotto forse meno tipico ed artigianale ma hanno conquistato una platea che prima trovava questi distillati troppo connotati.

Questa breve premessa ci permette di introdurre la riflessione odierna.
Parallelamente il mezcal, anche lui oggetto di una crescita esponenziale, ha finito per  mettere di fronte a delle scelte i produttori. Intraprendere la strada dell’illustre cugino o rifiutare del tutto la tecnologia rimanendo un prodotto di nicchia molto costoso?
La soluzione è stata un’ottima mediazione. Non potendo accettare che un prodotto meno tipico avesse il medesimo nome, hanno scelto di creare delle categorie per connotarlo.
Queste vengono riportate in etichetta a giustificare il prezzo finale.
Ripassiamole velocemente per comprendere al meglio i successivi passaggi.

Nel mezcal “generico”, le agavi possono essere cotte in forni a pozzo, scavati a terra, in aperta campagna e rivestiti di pietre, nei forni di mattoni o in autoclave di acciaio. Un mix fra tradizione e nuoe tecnologie.
Nel mezcal artesanal, si elimina l’autoclave, mentre nel terzo, l’ancestral anche il forno in mattoni ritornando al prodotto primitivo.
Passiamo alla distillazione. Nel mezcal gli alambicchi possono essere discontinui con piccola colonna in rame o misti con caldaia in acciaio e sono ammesse anche le colonne continue. Nell’artisanal sono consentiti solo alambicchi a fuoco diretto, con caldaia in rame o terracotta mentre nell’ancestral quest’ultima risulta essere l’unico materiale ammesso mentre l’elmo può essere anche in legno.
Un modo intelligente di fare marketing dove le produzioni ancestrali con agavi selvagge, prive di invecchiamento, possono raggiungere i prezzi di un cognac XO un blend che ha mediamente venti anni di botte.
Una scelta che soddisfa tutti, infatti con il mezcal si è aperto il mercato a palati meno avvezzi ai gusti forti di acetone ed affumicato soddisfacendo la voglia di seguire la moda.
Una lezione imparata a suo tempo dal whisky scozzese che divise le distillerie in zone non in base alle al suolo o alla materia prima come nelle acquaviti da vino francesi, ma allo stile adottato. Pertanto un consumatore che doveva essere educato al suo consumo poteva inizialmente scegliere un blended o un Highlands, per poi passare ai gusti forti legati alle Isole o Skye.

Un esempio che dovrebbe essere seguito anche dalla grappa.
Partiamo dall’acquavite di vinacce italiana: un prodotto di territorio che come il mezcal incarna il ruolo di distillato di territorio più tipico. Sono entrambi prodotti dalle origini popolari connotati dai sapori forti, ma  noi non sia stati capaci di creare i presupposti per catturare nuovi e più giovani consumatori innovando gusti e proposte.
Il mezcal ci ricorda simpatici distillatori in canottiera, il sole, la fiesta e la musica di chiatarre mentre la grappa la nebbia, le trincee ed i cori alpini. I tentativi di innovazione si sono fermati alla copiatura del whisky ed al suo woodfinish o elaborando prodotti più leggeri al limite dei disciplinari mettendo sul mercato le grappe “da miscelazione” che hanno ulteriormente ingarbugliato la situazione.

Mentre a ben guardare noi avremmo tutte le peculiarità per creare due o tre categorie di prodotto.
Partiamo dalla materia prima per poi passare alla distillazione. I vitigni possono essere tutti quelli vinificati in Italia, aromatici e non, e per ottenere la grappa abbiamo a disposizione cinque  diversi metodi: i moderni disalcolatori a vite rotante, le caldaie a vapore, il bagnomaria trentino e piemontese ed il fuoco diretto, praticamente scomparso.
L’invecchiamento può essere condotto in botti di diversi legni, dalla quercia al melo, come detto  è ammesso il wood finish sul modello scozzese (mentre in cognac si perde la denominazione), spaziando dai vini liquorosi iberici, ai passiti e fino al rum. infine le vinacce possono essere affumicate per completare l’opera di internazionalizzazione.
Ora tutti questi prodotti si possono chiamare grappa.
Quasi impossibile creare un filo conduttore, un comun denominatore, poiché le chiavi di lettura solo partendo dal vitigno posso essere molteplici.
Questa difficoltà non la si incontra se si assaggiano i cugini francesi di cognac dove le sfaccettature sono dettate dalle scelte del maestro di cantina e non da materia prima o strumenti di lavoro: generalizzando si parte tutti dall’Ugni Blanc e dallo charentais.

La soluzione sarebbe però semplice.
Creare un disciplinare con almeno due categorie: la grappa Tradizionale e la Grappa.
Con la prima si potrebbe connotarla ulteriormente, usare vitigni classici, legni ed alambicchi tradizionali.
Con la seconda si potranno fare tutte le cose che abbiamo detto prima aggiungendo il fatto di poter abbassare, come molti richiedono le sostanze volatili da 90 o 100 grammi, oggi a 140, per renderla più leggera ed adatta alla miscelazione, obiettivo spesso cercato e quasi mai raggiunto.
Insomma spazio alla fantasia, tutelando al contempo un prodotto tradizionale che avrà sempre degli appassionati sostenitori.
La proposta letta su queste righe non è frutto della fantasia dello scrivente ma dello studio della storia recente. Già nel Secondo dopoguerra Paolo Monelli, autore dell’ indimenticabile  libro Optimus Potor, il vero bevitore, si scagliava contro il nuovo corso delle grappe che cercavano recuperare terreno perdendo quella tipicità ed irruenza tanto cara ai figli del ’99.
Questa manovra di levigatura diede i suoi risultati, soprattutto grazie alla splendida comunicazione televisiva, il vero fattore determinante che portò la grappa a volumi mai visti. Ma come la storia ci insegna, finita la spinta, si ritornò alla solita storia pensando di rivitalizzare il prodotto con sporadici e ricorrenti spot legati alla miscelazione, il cruccio ricorrente della grappa.

Una sfida quasi impossibile? Speriamo di no, ma è certo che se non affrontata porterà la nostra acquavite nazionale ad essere un prodotto per pochi eletti con una media di età superiore ai 35 anni. La soluzione? Provocatoriamente potremmo fare, ancora una volta, come gli scozzesi che hanno richiesto una modifica ai legni ammessi per il wood finish includendo il tequila fra questi, in modo da attualizzare la proposta fra i giovani. Fra l’altro i sentori erbacei e vinosi della grappa si sposerebbero a meraviglia con quelli del tequila e per una volta non si potrebbe che essere d’accordo.

Cin cin.

  • #partesaperglispirits





    Gallery




    Altri Articoli