L'aperitivo: alcolico vs analcolico

di Fulvio Piccinino


Sono lontani i tempi in cui la richiesta di un aperitivo analcolico era sporadica e spesso accompagnata dagli ululati degli amici al tavolo verso il malcapitato, il quale si discolpava adducendo solitamente problemi di salute. Il barman preso atto della richiesta si limitava a chiedere se lo si volesse secco o dolce.
Per soddisfare la prima si proponeva una miscela mescolando due parti di succo di pompelmo e uno di ananas, aggiungendo qualche goccia di granatina, alla seconda invertendo l’ordine dei succhi magari sostituendo lo sciroppo di melograno con quello di fragola. Fine.  
I più evoluti proponevano il bitter analcolico o un gingerino con il succo di pompelmo, divenuto poi anche una proposta in pronta in bottiglia, mentre i meno preparati sulla fisica dei liquidi, frullavano della frutta fresca, spesso un economica mela, con sciroppi ed acqua ottenendo un composto che dopo pochi minuti si separava dando vita ad una proposta bi-strato, polpa-liquido inguardabile.
Oggi questa proposta si è necessariamente evoluta con l’arrivo della tendenza del zero alcol che si traduce, in moltissimi bar, in almeno tre o quattro analcolici in carta. Cocktail studiati, spesso con l’indicazione delle calorie, dove non c’è spazio per l’improvvisazione. Questa tendenza ha avuto, come spesso accade, in Londra e New York in primi promotori.
Ad onor del vero i paesi anglofoni avevano da sempre rispettato il dry january ovvero il gennaio a secco, una sorta di ramadan laico in cui ci si asteneva dal bere qualunque bevanda alcolica dopo gli eccessi di Natale e Capodanno.

Solo chi ha vissuto, lavorato o anche solo visitato queste due città in quei periodi può comprendere la necessità di un periodo di disintossicazione dopo le colossali sbornie che vengono abitualmente prese con i colleghi di ufficio o in famiglia.
Una pratica che in Italia non ha mai attecchito. In fin dei conti gli italiani parlano di alcolici ma poi bevono acqua, birra e vino. Chi decide di fare un periodo di detox lo fa in maniera autonoma solitamente se ha esagerato per il suo compleanno o per una determinata occasione, come il matrimonio del migliore amico.
L’Italia non ha mai avuto problemi di alcolismo gravi e non si vedono per strada le scene di detrimento totale che invece caratterizzano le città del Nord Europa e del Regno Unito.
Ed è per questo motivo che il trend dei prodotti analcolici, dalla birra al cocktail, stenta a decollare.
Ma non è detta l’ultima parola perché parlando con gli studenti di molti istituti superiori si scopre che, contrariamente ad un recente passato, non amano la sensazione di stordimento e finta euforia provocata dall’alcol. Pertanto, le loro scelte sono orientate verso prodotti a basso contenuto alcolico tendenzialmente dolci che potrebbero guidare questo settore ad un’improvvisa ascesa.

Verificato il presente andiamo per un attimo a ritroso nel passato. Il mancato trend attuale potrebbe essere spiegato anche con un'altra evidenza: fin dagli anni Cinquanta sul nostro mercato sono presenti proposte analcoliche sconosciute in altri paesi. Pertanto, il nostro boom l’abbiamo già vissuto quaranta anni fa…
Le bottigliette monodose nascono all’indomani del boom economico dettato dal Piano Marshall e rispondono all’esigenza di una nuova classe lavoratrice che non ha più bisogno di calorie e corroborarsi per lavorare i campi anche in inverno.
Inoltre, come dimenticare le spume (nera e gialla) e la cedrata, vere icone del Primo dopoguerra insieme al tamarindo ed al latte di mandorla. E come non ricordare il Chinotto nato alla fine degli anni Quaranta insieme all’aranciata amara. Una proposta di bevande dissetanti che non ha pari in nessun altro stato europeo dove spesso l’unico prodotto a basso contenuto alcolico è la birra.

Ed il mercato dello 0 alcol o del low alcol è stato aperto, nei paesi anglosassoni e nel nostro paese, proprio dalla birra con l’ingresso dei big, seguito un decennio dopo dal lancio, all’ultimo Viniitaly, di parecchi vini de alcolizzati. Da qui l’esigenza si è poi spostata sulla necessità di proporre una nuova merceologia fatta di prodotti che imitano il prodotto alcolico interpretandolo a zero gradi, come i cocktail pronti ed il gin. Nel caso di quest’ultimo utilizzando pack ed etichetta che ricordasse il più possibile la versione alcolica. Una sfida, quella del gusto, assolutamente difficile da vincere fino a qualche anno fa ma che con le innovazioni tecnologiche dell’ultimo lustro si avvia ad essere superata.

I Negroni o i simil Americano, che una volta si facevano con acqua e sciroppi per soddisfare i capricci di un ragazzino viziato che voleva avere nel bicchiere la cromia del cocktail che beveva il suo papà, sono diventati prodotti in bottiglia di qualità con profumi e scie amaricanti che riproducono quasi fedelmente il gusto originale. Le perplessità sono quasi totalmente spazzate via e un Negroni analcolico risulta quanto mai piacevole da bere.
Lo stesso dicasi per gli amari dove le versioni alcoliche sono state affiancate da quelle a zero alcol o analcoliche, che ricordiamo avere 1,2 gradi massimo. Una proposta che non risparmia anche i vermouth, whisky e rum, dove versioni con meno alcol (circa venti gradi) sono state poi affiancate da quelle a zero.
Un trend che a livello globale segna, per gli spirits, incrementi a doppia cifra, pari al 58%.
La cosa interessante è che, di quest’ultima cifra, solo una percentuale intorno al 10 per cento dichiara di non bere mai alcol, segno che per gli altri c’è una tendenza alla salute ed al benessere, dove il divertimento non deve essere necessariamente abbinato al consumo di alcol.

Ma non è tutto rose e fiori. Il principale problema di questi prodotti è la conservazione ed il costo. Un analcolico monodose, il cui gusto risulta più che soddisfacente, costa venti volte di meno che un cocktail analcolico in bottiglia.
Questo perché le tecniche che hanno reso possibile la nascita di questi prodotti come l’osmosi per sottrarre l’alcol e la distillazione in corrente di vapore, hanno ancora un costo importante. Questo si può calmierare a fronte di formati che contemplino la classica bottiglia da 0,70 centilitri.
A questo punto il problema della conservazione diventa pressante. Se il prodotto chiuso viene pastorizzato non ci sono problemi, ma una volta aperto ricominciano i problemi a causa dei batteri presenti nell’aria. Per evitare fermentazioni indesiderate in bottiglia e mucillaggini si devono inserire conservanti come acido ascorbico e sorbato di potassio che annullano, nel consumatore più attento, la percezione di un prodotto salutare. A questo si può ovviare con la mono dose ma il costo ed il servizio vengono penalizzati, infatti, si fa fatica a far entrare nel nostro stile di consumo il concetto di un amaro o di un cocktail monodose.

Quale sia la soluzione ideale, attualmente, ancora non lo sappiamo. I protagonisti, quanto meno in Italia, sono ancora pochi e solitamente non sono grandi aziende ma medie realtà che cercano di differenziarsi con una proposta alternativa.  Manca quindi il grosso player del mercato che possa investire per aprire il mercato e capire se sia una semplice moda o un trend in crescita ma dalle solide radici.
E le esperienze all’estero, per la premessa fatta, non possono essere adattate al mercato italiano.
Fra poco potremo parlare di sobrida? La movida sobria? Non ci resta che dare ai posteri l’ardua sentenza.

  • #partesaperglispirits





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