E così abbiamo salutato un nuovo anno. C’è però una data del 2017 che ha sancito una svolta molto importante: il 22 marzo, giorno in cui è stato stilato e sottoscritto, dopo tanti anni di lavori, il Disciplinare del Vermouth di Torino.
Un disciplinare di produzione è un documento che definisce i requisiti produttivi e commerciali che un prodotto deve soddisfare per ottenere una denominazione.
In questo caso vengono definite la caratteristiche necessarie affinché un vermouth possa avere la denominazione Vermouth di Torino o Vermouth di Torino Riserva se vengono soddisfatti requisiti più restrittivi fissati dalla legge.
Sarà finalmente possibile tutelare questo prodotto da plagi e imitazioni straniere e fare una distinzione dal resto della produzione italiana che, seppur di qualità, non ha legami di appartenenza con le origini e la storia del vermouth.
Vediamo quali sono i punti principali del nuovo disciplinare e le origini storiche che ci stanno dietro.
Il vino da utilizzare e il legame con il territorio
La prima cosa importante che viene sancita è il forte legame con il territorio. Questo si riflette innanzitutto nella scelta del vino che, con un peso del 75% della composizione totale di un vermouth, è la materia prima principale.
Il Vermouth di Torino potrà essere fatto esclusivamente utilizzando vini italiani, sia bianchi che rossi. Contrariamente a quanto si pensa infatti, non esiste nessun vincolo all’uso di questi ultimi anche se si è sempre preferito utilizzare i primi aggiungendovi poi del caramello di zucchero.
Non c’è dubbio alcuno invece sul fatto che per produrre vermouth nel recente passato si sia attinto al vino straniero, soprattutto spagnolo.
Il ritorno alla produzione italiana è un passo significativo verso il senso di appartenenza e trae origine dalla storia.
Inizialmente il vino utilizzato nel processo produttivo era esclusivamente piemontese e questa caratteristica viene ripresa nella versione Superiore, dove è previsto che il vino utilizzato sia prodotto nella regione Piemonte in una percentuale pari ad almeno il 50% in volume del prodotto finito.
Dopo la metà dell’Ottocento, quando il vermouth divenne un fenomeno italiano e poi mondiale, fu chiaro che la sola produzione piemontese non fosse sufficiente.
Nella sua monografia sul vermouth di Torino del 1906 Arnaldo Strucchi parla chiaramente di vini pugliesi, siciliani e sardi utilizzati per la composizione del vino base, confermando come il Moscato, vitigno bianco principe dell’enologia piemontese e citato fin dal Settecento nei libri di ampelografia, non fosse più il vitigno principale.
Questo perché nel frattempo le uve Moscato erano diventate protagoniste di un altro importante prodotto: l’Asti Champagne. Un vino spumante semi secco che riscuoteva ampi consensi e che, come si intuisce dal nome, traeva ispirazione dalla produzione francese.
Questo prodotto divenne egemone durante il regime fascista, essendo impossibile l’importazione del vino frizzante delle colline di Reims, determinando la definitiva scomparsa del Moscato dalla base del vermouth.
Questa caratteristica rimase anche nel secondo Dopoguerra, sia per una ragione di costi, sia per la maggiore facilità di concia del vino, in quanto i vitigni del biotipo Trebbiano, che sostituirono definitivamente il Moscato, erano (e sono) privi di profumi primari intensi.
Il grado alcolico
La gradazione alcolica è stata fissata in 16 gradi minimo per la versione base e in 17 per il Superiore. Nel vermouth senza denominazione invece questa rimarrà agli attuali 14,5.
Le ragioni alla base della definizione di questi valori sono prettamente storiche. L’Unità d’Italia infatti favorì i commerci del Piemonte con il Mezzogiorno dove il vino era abbondante ed alcolico, qualità gradita ai produttori che potevano così risparmiare sensibilmente per la sua fortificazione.
Sempre Strucchi, nel suo libro, parla di analisi condotte per conto di alcune aziende impegnate nell’Expo di Parigi del 1900 ed indica in 16,5 il grado medio di questi prodotti. La fortificazione superiore era necessaria per preservare il prodotto al meglio e dargli una struttura diversa.
Il grado alcolico era ed è, in un vino aromatizzato, un indicatore di qualità percepito, specie se l’utente finale è il barman che deve mescere il prodotto con altri prodotti alcolici e soprattutto con soda, il principale coadiuvante di allora dei cocktail a base vermouth.
Ad onore del vero in altri testi consultati per la stesura del disciplinare, come le opere di Luigi Sala e Antonio Rossi, per il vermouth prodotto e consumato in loco si indica una gradazione inferiore sui 14/15 gradi, segno che la fortificazione era funzionale alla spedizione del prodotto.
Ma ancora i libri di Strucchi e poi Cotone e Maragliano due decenni più tardi, affermano che il Vermouth di Torino di qualità deve avere un grado superiore a quanto detto, cosa che poi viene ulteriormente confermata dal Regio Decreto del 1935.
Pertanto fissando in 16 gradi si è riportato il Vermouth di Torino nell’esatta collocazione delle bevande aromatizzate a base di vino.
Le erbe e le spezie
Un altro importante capitolo riguarda le erbe e le spezie che compongono la ricetta, e in particolare l’artemisia, l’elemento aromatizzante più importante.
La parola vermouth infatti deriva dal tedesco wermut parola che definisce questa erba, spontanea ed abbondante in Piemonte.
Da questa regione infatti dovrà provenire la totalità dell’assenzio usato per la ricetta sapendo che a Pancalieri, città a sud di Torino famosa anche per la menta, esiste la più grande coltivazione, probabilmente al mondo, di questa pianta.
Un legame con il territorio evidente e forte, unico nel panorama liquoristico italiano, se si esclude la produzione del Genepy, anch’esso coperta da tutela e guarda caso, anche lui prodotto con un biotipo di artemisia: la mutellina.
Nella versione Superiore il richiamo al territorio sarà ancora più forte infatti, la composizione della ricetta dovrà privilegiare, se presenti, le piante aromatiche della produzione regionale.
Un importante incentivo al recupero di terreni incolti ed allo sviluppo di attività lavorative per giovani imprenditori.
Infine per sancire il definitivo ritorno della specialità alle sue radici, la produzione del
Vermouth di Torino potrà avvenire esclusivamente nel territorio regionale fatto salvo due deroghe, legate alla storia aziendale, per due produttori di origini piemontesi che negli anni Cinquanta portarono la produzione in Lombardia.
Zuccheri e dolcificanti
Le quantità di zucchero presenti nel vermouth devono essere 130 grammi per Rosso, Bianco e Rosè, 50 per il Dry e 30 per l’Extra Dry. Queste erano la base di partenza utilizzata in quanto i vermouth alla china, spesso etichettati anche come Vermouth Amaro, arrivavano ad avere anche 180 o 200 grammi di zucchero per bilanciare la ricetta. Novità rispetto al precedente disciplinare di produzione: l’introduzione del miele come dolcificante.
Per quanto riguarda la colorazione si potrà usare caramello E 150.
Finalmente i barman ed i consumatori italiani e stranieri avranno, negli anni a venire, la possibilità di miscelare o degustare liscio, cosa auspicabile, un prodotto che ha un codice produttivo ed una qualità certificata. Un grosso lavoro è stato fatto, ora tocca agli addetti ai lavori che dovranno proporlo ed argomentarlo nel giusto modo, perché tutto sarà stato inutile se poi il Vermouth di Torino non finirà nei bicchieri.
Lunga vita al Vermouth di Torino!
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