La fermentazione è un’arte culinaria estremamente antica, che getta le basi nel mondo orientale. L’uomo per molti secoli in passato ha utilizzato il processo di fermentazione dei cibi per conservarli più a lungo. Questa tecnica è stata progressivamente abbandonata con l’arrivo sulla tavola dei conservanti chimici e con la nascita e il diffondersi del frigorifero e del congelatore. Insomma, la fermentazione fa parte di ogni cultura gastronomica, anche di quella a noi più familiare: vino, birra, yogurt, pane devono il loro aspetto finale all’azione fermentativa di lieviti e microrganismi. Lo stesso accade in prodotti come i crauti, versione occidentale delle conserve di ortaggi esotiche, come il kimchi coreano o certe salse sudamericane. Il processo che trasforma il latte in yogurt è il medesimo della smetana, la panna acida russa utilizzata in tutta l’Europa dell’Est, ma anche dei formaggi vegani ottenuti a partire da una pasta di semi oleosi, la salsa di soia e la kombucha, il tè a cui vengono aggiunti lieviti che lasciato macerare, va a formare anidride carbonica e diventa frizzante. Esistono centinaia di ingredienti freschi che sottoposti al trattamento regalano sapori inaspettati ai piatti.
Oggi fare uso della fermentazione in cucina è una delle tendenze più dirompenti tra i cuochi gourmet, anche se questa tecnica spacca in due il mondo di pentole e fornelli: c’è chi la ama e chi la odia, senza vie di mezzo. Moreno Cedroni vede un grande valore aggiunto della fermentazione per la sua cucina: «La componente fermentata - afferma - è tridimensionale, in un ingrediente si ha contemporaneamente il salato, l’acido e il piccante. Se la usi bene, fa la differenza tra un piatto e l’altro perché va ad arricchire un ingrediente che, a volte, può essere monotono se il piatto ha un equilibrio gustativo costante. Il fermentato smuove il profilo gustativo, lo paragonerei al picco che si registra in un elettrocardiogramma, quando si prova un’emozione, provoca un “bip”».
Ma cos’è la fermentazione? Si tratta di un processo chimico che consente di liberare l’energia contenuta nello zucchero glucosio, per renderla utilizzabile, ed è in genere intrapresa da lieviti e batteri in assenza d’ossigeno. Un procedimento antico, utilizzato per conservare più a lungo i cibi, spiegato in seguito scientificamente da Louis Pasteur nell’Ottocento. Gli effetti del cibo fermentato sul nostro organismo sono numerosi e, pare, tutti positivi: i cibi e le bevande fermentate contribuiscono ad aumentare il numero di batteri buoni che transitano nel nostro intestino, contribuendo alla sua regolarizzazione, difatti facilitando la digestione e garantendo il benessere dell’apparato digerente.
Tra gli esperti nazionali di fermentazione, c’è Carlo Nesler, bolzanino con il pallino dei fermentati fin da bambino, che ha fondato a Viterbo CibOfficina, un centro di produzione, formazione e sperimentazione, incentrato sulla fermentazione e l’agricoltura naturale. La CibOfficina ospita corsi di formazione per professionisti, laboratori di autoproduzione ed eventi informativi. Produce e commercializza inoltre cibi fermentati vivi, non pastorizzati, quali miso e shoyu senza soia, crauti, verdure fermentate, kimchi, kombucha e così via. «In un’epoca in cui per molti - afferma Nesler - l’unico modo di affrontare le difficoltà sembra essere lo sterminio e la desertificazione, per cui si sterilizza (per uccidere microbi), si eliminano sistematicamente le piante spontanee (attraverso il diserbo) e si diffondono veleni in modo indiscriminato (disinfestazioni in campo agricolo e civile) è vitale recuperare e attualizzare l’antichissima tradizione di fermentare i cibi». Ma attenzione, perché con la fermentazione non si scherza: «Seppure la versatilità delle fermentazioni in cucina sia senza pari, spesso le difficoltà nel gestire l’attività microbica non mancano - prosegue Nesler -. Non si dovrebbero mai sottovalutare i rischi che possono essere legati alla conservazione improvvisata dei cibi, anche se con una preparazione adeguata molti metodi possono risultare estremamente semplici».
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