Vitigni autoctoni per un'estate davvero italiana

di Marco Tonelli


Abbiamo più vitigni autoctoni che giorni sul calendario. Un mondo caratterizzato da piccole produzioni, dominate da uve con nomi insoliti, pensiamo alla Cococciola (bacca bianca tipica dell’Abruzzo) o al Pecorino (bacca bianca sempre abruzzese che pare derivare il proprio nome dalla forma del grappolo).

Altrettante particolarità anche tra le bacche rosse. Dalle presunte origini divine, e insieme pagane, del Sangiovese, passando per la derivazione quasi meteo (nebbia) del nome del Nebbiolo, senza dimenticare infine le supposte virtù erotizzanti del vitigno, sempre piemontese, chiamato Pelaverga. Al di là delle origini dei nomi quello che importa sono le qualità o per meglio dire le unicità dei vitigni in questione. Grappoli in alcuni casi dimenticati, perché difficili da coltivare o da far apprezzare al pubblico. Lo stesso che, di recente, pare tuttavia abbia riscoperto un certo campanilismo vitato, spesso al traino delle diverse tradizioni gastronomiche regionali che, in un quadro di ricerca di sempre maggiore tipicità, prediligono, come accompagnamento, sorsi locali.

Vista la stagione e le preparazioni della tavola che essa porta con sé, la scelta di un bicchiere estivo, ma autoctono, potrebbe essere riempito, tra i tanti vitigni, da: Verdicchio, Trebbiano di Soave e Lambrusco di Sorbara.

Il primo di questo trio deriva il proprio nome, con molta probabilità, dal colore verde degli acini. La complessità gustativa invece è guidata, sia in gioventù sia dopo molti anni di bottiglia, dalla sapidità. La stessa che il Verdicchio manifesta sia che derivi dalla zona classica (Castelli di Jesi), con questo termine di solito s’individua la zona più antica di coltivazione, sia da quella ‘di montagna’, patria del Verdicchio di Matelica.

A dire il vero il grande numero dei vitigni autoctoni di casa nostra è dovuto anche ad alcune migrazioni. Rimanendo in ambito Verdicchio studi genealogici hanno messo in luce un rapporto addirittura identitario, al netto delle differenti zone di coltivazione, con il Trebbiano di Soave (provincia di Vicenza) e il Trebbiano di Lugana (lago di Garda). Il primo dei due vitigni dà vita, spesso in assemblaggio con la Garganega, al Soave. Se questo secondo vitigno conferisce al vino struttura e densità, il Trebbiano di Soave gli porta in dote acidità e sapidità. Oltre alla caratterizzazione derivante dal blend, il Soave si arricchisce di un’altra peculiarità: i terreni di origine vulcanica.

Grazie a questa ‘dimora’ il Soave è in grado di sviluppare una grande eleganza, oltre a quella capacità di abbinarsi anche ad ingredienti notoriamente ostici come l’uovo. ‘Di Colombo’ per la sua eccellente capacità di risolvere qualsiasi situazione rispetto all’abbinamento: il Lambrusco di Sorbara. Una bacca rossa che incontra, in bottiglia, le bolle attraverso la rifermentazione, il metodo charmat (all’interno di una grande cisterna il vino fermo subisce una seconda fermentazione che lo arricchisce di gusto e perlage), ma anche il metodo classico.

Quello per intenderci dello champagne, élite enologica con cui il Lambrusco di Sorbara condivide un’altra caratteristica: l’acidità. Non quella tagliente del limone, ma quella golosa del lampone e della fragola. Proprio questo carattere consente al Lambrusco di Sorbara di abbinarsi praticamente a tutto, pesce compreso; frittura, cozze al pomodoro e pesce all’acqua pazza su tutto.

La lista e i caratteri degli autoctoni italiani, come detto, è praticamente infinita, speriamo che lo sia anche la curiosità degli aficionados dei vini di casa nostra in estate, ma non solo.



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